Per non dimenticare
"Osannati come eroi, si macchiarono dei crimini più vergognosi e tradidoro a più riprese la parola data"
Hanno disonorato l'Italia, tradito i propri fratelli e si sono macchiati di crimini inaudi, ma i Partigiani ancora oggi sono considerati eroi. L'Altra faccia della resistenza, verso il 25 Aprile storie di cui nessuno parla...
I trucidati della Divisione “Littorio”
Negli ultimi giorni di Aprile anche i reparti della “Littorio” che,
come è noto, difendevano i confini occidentali, iniziarono il
ripiegamento verso il fondo valle. Anche qui, come altrove, i reparti
che rimasero in armi fino all’arrivo degli anglo-americani, si
consegnarono a questi e furono avviati ai campi di
concentramento.Quelli, invece, come il III° Btg del 3° Rgt granatieri,
si consegnarono ai partigiani, ebbero sorte diversa. Era stato raggiunto
un accordo coi partigiani del capitano Aldo Quaranta per un
indisturbato deflusso di tuti i reparti e il III° Btg, giunto il 27
aprile a Borgo San Dalmazzo, si arrese al capo del CLN del luogo, tale
Oratino. L’accordo era che i militari sarebbero stati messi gradualmente
in libertà forniti di lasciapassare. Fra gli uomini del Btg e i
partigiani non c’erano mai stati scontri o altri incidenti, per cui il
patto fu accettato dagli uomini della “Littorio” fidando nella parola
dell’Oratino. Ma anche questa volta gli uomini del CLN e i partigiani
non tennero fede alla parola data e il Maggiore Grisi, comandante del
III Btg, il maggiore Montecchi, il Ten. Buccianti, il Cap. Calabrò, i
Marescialli Sanvitale e Magni, il Caporal Maggiore Sciaratta ed altri
furono uccisi alcuni dopo un processo sommario, altri senza processo e,
soprattutto, senza che fossero loro contestate reali colpe.
Il massacro del Distaccamento “Torino” della X^
Il 26 aprile 1945 le forze del Presidio militare di Torino lasciarono
la città agli ordini del comandante regionale militare Gen.
Adami-Rossi. Ma il distaccamento “Torino” della Decima Flottiglia MAS
non le seguì e si chiuse nella caserma Montegrappa preparandosi ad una
resistenza ad oltranza. Disponeva anche di qualche carro armato. La
resistenza durò tre giorni ma alla fine, esaurito il carburante per i
carri e scarseggiando le munizioni, il 30 aprile cessò. Qualcuno riuscì a
mettersi in salvo attraverso certi cunicoli sotterranei, ma sui rimasti
si abbattè la ferocia partigiana. Circa 70 uomini furono fucilati nel
cortile della caserma, altri furono massacrati dalle varie formazioni
partigiane che avevano partecipato all’assalto e alla cattura di
prigionieri. Alla fine, dopo che avevano dovuto assistere al martirio
dei camerati, vennero fucilate anche tutte le ausiliarie del reparto.
Giuseppina
Ghersi (1931 – 30 aprile 1945)
Era una studentessa di 13 anni
dell'istituto magistrale "Maria Giuseppa Rossello" del quartiere “La
Villetta” di Savona. Una bambina accorta e diligente, figlia di
commercianti ortofrutticoli abitava in via Tallone, attualmente via
Donizetti. Dall’esposto del padre, Giovanni Ghersi, presentato al
Procuratore della Repubblica di Savona in data 29 aprile 1949, di cui è
possibile chiedere copia all’Archivio di Stato di Savona, e che consta
di sei cartelle minuziosamente vergate a mano, leggiamo che: “Il 25
aprile ‘45, alle 5 pomeridiane” i partigiani, appena entrati a Savona,
chiedono ai Ghersi del “materiale di medicazione” che la famiglia non
esita a “fornire volentieri”. Il giorno successivo, come di consueto, i
coniugi si dirigono verso il loro banco di frutta e verdura, ma in zona
San Michele, poco dopo le 6.00 del mattino, sono fermati da due
partigiani armati di mitra. Vengono portati al Campo di Concentramento
di Legino , situato nella zona dell’odierno complesso delle Scuole Medie
Guidobono, dove un terzo partigiano sequestra loro le chiavi
dell’appartamento e del magazzino. Dopo circa mezz’ora viene deportata
al Campo anche la cognata e i partigiani, senza testimoni, possono
finalmente procedere rubando le merci dal negozio e tutti i beni della
famiglia presenti in casa. Solo Giuseppina manca all’appello perché
ospitata da alcuni amici di famiglia in Via Paolo Boselli 6/8.
I
Ghersi, ormai detenuti da due giorni senza lo straccio di un’accusa,
chiedono spiegazioni ai partigiani che rispondono rassicurandoli. Viene
loro detto che si tratta di un semplice controllo e che hanno bisogno di
fare delle domande alla figlioletta. Siccome Giuseppina aveva
precedentemente vinto un concorso a tema ricevendo, via lettera, i
complimenti da parte del Segretario Particolare del Duce in persona,
trattandosi di una bonaria quisquilia, i genitori si persuadono circa le
intenzioni dei partigiani e, accompagnati da uomini armati, vanno a
prendere la piccola. L’intera famiglia Ghersi viene dunque tradotta
nuovamente al Campo di Concentramento dove inizia il primo giorno di
follia. E’ il pomeriggio del 27 Aprile 1945: madre e figlia vengono
malmenate e stuprate mentre il padre, bloccato da cinque uomini, è
costretto ad assistere al macabro spettacolo percosso dal calcio di un
fucile su schiena e testa. Per tutta la durata della scena gli aguzzini
chiedono al padre di rivelare dove avesse nascosto altro denaro e
oggetti preziosi.
Giuseppina cade probabilmente in stato comatoso perché, come
riferisce l’esposto al Procuratore, “non aveva più la forza di chiamare
suo papà”.
Verso
sera inizia a piovere e le belve, stanche di soddisfare i propri
istinti, conducono Giovanni e Laura Ghersi presso il Comando Partigiano
di Via Niella dove viene chiaramente detto che a loro carico non è
emerso nulla. Nonostante ciò i partigiani li rinchiudono nel carcere
Sant’Agostino.
Giuseppina subisce da sola un lungo calvario di sofferenze finché, il 30 Aprile 1945, viene finita con un colpo di pistola per poi essere gettata davanti alle mura del Cimitero di Zinola su un cumulo di cadaveri. Il corpo viene disteso dal personale del luogo nella fila dei riconoscimenti dove per diversi giorni. Qui viene notato dal Sig. Stelvio Murialdo per alcuni agghiaccianti particolari. Riportiamo, testualmente, dalla memoria del Sig. Stelvio Murialdo: “E proprio il primo era un cadavere di donna molto giovane; erano terribili le condizioni in cui l' avevano ridotta, evidentemente avevano infierito in maniera brutale su di lei, senza riuscire a cancellare la sua giovane eta'. Una mano pietosa aveva steso su di lei una SUDICIA COPERTA GRIGIA che parzialmente la ricopriva dal collo alle ginocchia. La guerra ci aveva costretto a vedere tanti cadaveri e in verità, la morte concede ai morti una distesa serenità; ma lei , quella sconosciuta ragazza NO!!! L' orrore era rimasto impresso sul suo viso, una maschera di sangue, con un occhio bluastro, tumefatto e l' altro spalancato sull' inferno. Ricordo che non riuscivo, come paralizzato, a staccarmi da quella povera disarticolata marionetta, con un braccio irrigidito verso l' alto,come a proteggere la fronte, mentre un dito spezzato era piegato verso il dorso della mano.”
Giuseppina subisce da sola un lungo calvario di sofferenze finché, il 30 Aprile 1945, viene finita con un colpo di pistola per poi essere gettata davanti alle mura del Cimitero di Zinola su un cumulo di cadaveri. Il corpo viene disteso dal personale del luogo nella fila dei riconoscimenti dove per diversi giorni. Qui viene notato dal Sig. Stelvio Murialdo per alcuni agghiaccianti particolari. Riportiamo, testualmente, dalla memoria del Sig. Stelvio Murialdo: “E proprio il primo era un cadavere di donna molto giovane; erano terribili le condizioni in cui l' avevano ridotta, evidentemente avevano infierito in maniera brutale su di lei, senza riuscire a cancellare la sua giovane eta'. Una mano pietosa aveva steso su di lei una SUDICIA COPERTA GRIGIA che parzialmente la ricopriva dal collo alle ginocchia. La guerra ci aveva costretto a vedere tanti cadaveri e in verità, la morte concede ai morti una distesa serenità; ma lei , quella sconosciuta ragazza NO!!! L' orrore era rimasto impresso sul suo viso, una maschera di sangue, con un occhio bluastro, tumefatto e l' altro spalancato sull' inferno. Ricordo che non riuscivo, come paralizzato, a staccarmi da quella povera disarticolata marionetta, con un braccio irrigidito verso l' alto,come a proteggere la fronte, mentre un dito spezzato era piegato verso il dorso della mano.”
La
Sig.ra Ghersi viene rilasciata dopo 12 giorni di detenzione ed è
costretta a recarsi presso al sede Comunista del quartiere Fornaci per
domandare le chiavi della propria casa. Queste le vengono restituite
solo il giorno successivo quando, accompagnata da un caporione del PCI,
può riappropriarsi parzialmente dell’appartamento: il funzionario
politico provvede infatti a sigillare tutte le camere eccetto una
stanzetta e la cucina.
E’
quasi estate e il marito viene liberato dal carcere l’11 giugno senza
mai essere stato interrogato per tutta la durata della detenzione. In
questa circostanza apprende la notizia della morte di sua figlia e,
nonostante il tremendo peso che aggrava il suo cuore, ritrova dentro
casa la moglie prossima alla follia.
Il
Sig. Ghersi si rivolge alla Questura dove, per via delle ruberie, gli
viene corrisposto un acconto di 150.000 Lire mentre un agente si offre
d’aiutarlo nella rimozione dei sigilli apposti ai locali della propria
casa.
L’uomo,
dovendo provvedere a moglie e cognata, viene assunto “per compassione”
presso il consorzio ortofrutticolo dove riesce a percepire il minimo
necessario per sopravvivere.
Sembra quasi che le cose tendano verso una certa normalizzazione, quando la notte dell’11 Luglio, a un mese esatto dalla scarcerazione di Giovanni, si iniziano ad avvertire alcuni rumori che svegliano di sobbalzo la famiglia. Un gruppo non identificato di persone cerca di forzare la porta di casa Ghersi che, fortunatamente, non cede.
Sembra quasi che le cose tendano verso una certa normalizzazione, quando la notte dell’11 Luglio, a un mese esatto dalla scarcerazione di Giovanni, si iniziano ad avvertire alcuni rumori che svegliano di sobbalzo la famiglia. Un gruppo non identificato di persone cerca di forzare la porta di casa Ghersi che, fortunatamente, non cede.
Giovanni e Laura non riescono più a sostenere l’onere delle
violenze subite e fuggono da Savona affrontando una vita di stenti e
povertà incontrando in ogni dove il sospetto dei funzionari politici del
Pci. Situazione del tutto simile a quella dei profughi istriani che,
giunti in Italia, si trovano costretti a fuggire in altri paesi per via
della pressione esercitata sul Governo, da parte del Partito Comunista
Italiano. “Abbiamo dovuto scappare - si legge nell’esposto del Sig
Giovanni - all’alba come ladri, da casa nostra, dalla nostra città ,
senza mezzi e senza lavoro, vivendo per anni in povertà e miseria, pur
sapendo che gli assassini della mia bambina di appena 13 anni, vivevano
nel lusso impuniti, onorati e riveriti, con i nostri soldi e di tutti
quelli che erano morti o che erano dovuti scappare.
LA MEMORIA NEGATA
Negli
anni ’50 il Sig. Stelvio Murialdo insieme ad altri amici decide di
fissare un incontro periodico per cercare di dar voce alle storie negate
dalla vulgata resistenziale. Nasce il primo gruppo dell’Associazione
Ragazzi del Manfrei. Sono anni difficili attraversati da un filo rosso
di omicidi come testimonia, ad esempio, il delitto del Commissario
Salemi messo a tacere dalla misteriosa “Pistola Silenziosa”. L’unico
ambiente che accoglie queste testimonianze è quello del Movimento
Sociale Italiano col conseguente isolamento che ne consegue. I familiari
delle vittime così come i testimoni oculari sono tacciati di essere dei
nostalgici del Fascismo e né i giornali né gli autori di storia locale
concedono cittadinanza a simili storie.
Passano i decenni finché, a livello nazionale, sembra aprirsi
qualche spiraglio di speranza: il 2005 è l’anno del primo giorno del
ricordo per i martiri delle Foibe e, timidamente, nel 2008 alcuni
iniziano a chiedere alla locale sede de La Stampa di Savona la
possibilità di parlare finalmente di Giuseppina Ghersi. Il Consigliere
di Circoscrizione Vito Cafueri chiede, senza successo, che la piccola
ottenga una targa in sua memoria nel quartiere Fornaci. Sembra comunque
che il clima stia cambiando: l'ex senatore del Pci Giovanni Urbani,
all'epoca commissario politico della divisione partigiana Gin
Bevilacqua, dichiara: «Sono sceso a Savona proprio quel giorno ma non
sapevo di questo episodio che merita di certo un approfondimento negli
archivi. Non sarebbe un caso isolato. Venivamo da una guerra civile in
cui era successo veramente di tutto» ma le reazioni non tardano e la
Sig.ra Vanna Vaccani Artioli, per 27 anni Segretaria Provinciale e
Consigliere Nazionale dell’Anpi afferma: «Mi ricordo Giuseppina Ghersi.
Era poco più che una ragazzina ma collaborava con i fascisti. La sua fu
sicuramente un'esecuzione». L’infondata accusa di collaborazionismo non
può essere ribattuta perché, nel contempo, i parenti di uno dei
partigiani probabilmente coinvolti nel fatto, denunciano La Stampa
richiedendo un risarcimento che per legge spetta loro visto che il
crimine in questione è stato amnistiato dalla Repubblica Italiana e a
nessuno può essere imputato. I giornali scelgono di non parlare più del
fatto fino all’11 febbraio 2010 quando La Stampa concede un piccolo
ritaglio alla notizia dell’interpellanza del Consigliere Comunale
Alfredo Remigio che, in sostegno all’iniziativa lanciata dai Ragazzi del
Manfrei, chiede che sia “intitolato uno spazio pubblico o, quantomeno,
istituito un Giorno del Ricordo in memoria di Giuseppina Ghersi”. Il
Comune di Savona respinge la richiesta e in tutta Italia, via internet,
sorgono gruppi spontanei in sostegno alla memoria di Giuseppina Ghersi. i
Settori dell’estrema sinistra insorgono su vari siti e blog.
L’enciclopedia
“libera” Wikipedia nega ripetutamente la possibilità di redigere una
pagina a memoria dei fatti, mentre l’Anpi, alla richiesta di
collaborazione avanzata dai Ragazzi del Manfrei, risponde col silenzio.
Da qui ai nostri giorni: La Città di Savona e l’Italia del Diritto la ricorderanno mai?
Rosso, nero, bianco, azzurro. I colori della Vita diventano
strumenti di odio in mano a chi si identifica in una ideologia, al di là
del buon senso. Al di là del colore politico, una sola tinta si presta a
connotare il racconto, il rosso del sangue dei martiri di tutti i
tempi, assieme al bianco dell’innocenza, il verde della speranza.
Speranza che si riscriva la storia, che sia fatta giustizia. Perché ciò
che è stato è stato, ma abbiamo oggi il dovere di restituire dignità ai
genitori della piccola Giuseppina e a tutti coloro che sono stati
privati dei loro diritti, al di là dell’appartenenza politica. Nel
viaggio finale, quello che siamo destinati a compiere tutti, non ci sono
più colori e appartenenze, ma azioni, sentimenti, valori. E il colore, è
quello dell’amore.
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